ATTENZIONE: Gli ascoltatori potrebbero trovare questo contenuto discutibile. Si consiglia vivamente discrezione!
Queste parole, o variazioni simili, spesso servivano più come una sfida giocosa che come un genuino deterrente sui dischi che spingevano i confini della decenza a metà del XX secolo. Invece di spaventare i potenziali acquirenti, tali avvertimenti spesso stuzzicavano la curiosità, trasformando il disco in una novità imperdibile, soprattutto grazie al passaparola. Nel mondo dei dischi osé, la controversia era spesso la migliore strategia di marketing. E pochi dischi corteggiarono la controversia come “Butcher Pete” di Roy Brown.
Hackin’, Whackin’ And Smackin’ Il concetto di contenuto sessualmente allusivo nell’arte non è affatto nuovo. Secoli prima del rock and roll, la letteratura spingeva i confini sociali. Il romanzo di John Cleland del 1749, Memoirs of a Woman of Pleasure, meglio conosciuto come Fanny Hill, esplorava apertamente la vita di una prostituta, completo di orge, bisessualità e adulterio, privo di rimorso. Bandito sia in Gran Bretagna che in America per generazioni, fu solo negli anni ’60, attraverso storiche cause giudiziarie, che Fanny Hill poté essere legalmente pubblicato e venduto senza censura. Questo esempio storico sottolinea un fascino umano senza tempo per il proibito, una dualità che la musica, in particolare il nascente genere del rock ‘n’ roll, avrebbe prontamente sfruttato.
Entra in scena Butcher Pete, una saga in due parti del blues shouter Roy Brown, pubblicata nel 1950. Questo disco si tuffò a capofitto nel regno delle allusioni sessuali, al limite del tabù, e forse anche accennando alla necrofilia, a seconda dell’interpretazione. Nonostante la sua natura scandalosa, o forse proprio per questo, la rivista Billboard recensì “Butcher Pete” sorprendentemente in modo favorevole, anche se con un chiaro avvertimento: Non adatto alla trasmissione radiofonica. Questo avvertimento, naturalmente, non fece altro che amplificarne il fascino.
From Sunrise To Sunset La vera portata dei “crimini” di Butcher Pete, come descritto nella canzone, rimane aperta all’interpretazione, avvolta in eufemismi. La metafora centrale ruota attorno alla “carne”, un termine le cui connotazioni sessuali sono fondamentali per comprendere la natura suggestiva della canzone. Mentre oggi “carne” è comunemente inteso come slang per i genitali maschili, in contesti più antichi e sessualmente espliciti, era spesso usato per riferirsi anche ai genitali femminili.
Butcher Pete di Roy Brown utilizza magistralmente questo doppio senso. Con versi che parlano di Pete che brandisce il suo “grande coltello lungo” e “taglia la carne delle donne”, la canzone dipinge un quadro crudo, anche se accattivante, di incontri sessuali. La narrazione è semplice, quasi rudimentale, che elenca le donne che Pete “definisce” quotidianamente. Sebbene l’idea di una canzone su un deviato sessuale non sia del tutto nuova – si pensi a “Mack the Knife”, scritta nel 1928, che esplora temi simili con molta più sottigliezza – Butcher Pete opta per il valore shock piuttosto che per la sfumatura.
Ogni verso di “Butcher Pete” funziona come un titolo sensazionalistico, privo di qualsiasi pretesa di sottigliezza. L’interpretazione di Brown enfatizza ulteriormente questa crudezza; urla piuttosto che cantare, rinunciando alla melodia per una potenza grezza e declamatoria. Se Brown si scagliasse contro il vizio, la sua interpretazione infuocata potrebbe assomigliare a un predicatore pentecostale che denuncia il peccato da un palco improvvisato. Tuttavia, la sua entusiastica rappresentazione di Butcher Pete, il colpevole, lo trasforma in un allegro banditore, che assapora la possibilità di diffondere pettegolezzi scandalosi e attirare l’attenzione.
Ad aggiungere all’atmosfera chiassosa c’è un coro di voci, che sembrano rappresentare i pettegolezzi del paese. Il loro canto lascivo di “he’s hacking and whacking and smacking” suggerisce i loro stessi desideri repressi, un brivido vicario derivato dalle imprese di Butcher Pete, anche mentre fingono disapprovazione. Questa performance collettiva rasenta la rozzezza, ma possiede un innegabile valore di intrattenimento, a condizione che l’ascoltatore mantenga una prospettiva distaccata e divertita.
You Ain’t Heard Nothin’ Yet Tuttavia, indulgere nello stile di vita di Butcher Pete, suggerisce la canzone, è una strada verso la rovina. Oltre all’ovvio rischio di malattie veneree derivanti dal “taglio” indiscriminato di Pete, la narrazione prende una piega più oscura e perversa. Pete viene infine arrestato – presumibilmente per stupro o aggressione sessuale – anche se alcune donne, come citato da giornalisti immaginari all’interno della canzone, sembrano desiderare le sue attenzioni indesiderate.
Nonostante le potenziali scappatoie legali per aggressione sessuale aggravata in questo mondo immaginario, gli impulsi carnali di Pete rimangono incontrollati in prigione. Nella seconda parte della canzone, apprendiamo che le guardie carcerarie scoprono Pete che “taglia” il suo compagno di cella, uno sfortunato vagabondo, presumibilmente ubriaco, che si sveglia a un incontro decisamente sgradito.
Ma la saga non finisce qui. La seconda parte, anche se probabilmente meno incisiva della prima, continua la folle baldoria di Pete. “Taglia” sul pulpito in una chiesa, su una nave diretta in Cina e, infine, in un bizzarro climax, “taglia” la stessa sedia elettrica mentre la società tenta di giustiziarlo per i suoi crimini.
La canzone lascia l’ascoltatore a riflettere sulla natura del “coltello” di Pete. È ancora un eufemismo per il suo pene, o è diventato una lama letterale, forse simbolicamente restituitagli dopo il suo primo periodo in prigione? O Butcher Pete possiede un pene così potente da poter smantellare mobili ed elettrodomestici? La canzone si crogiola in questa ambiguità.
Butcher Pete sembra intenzionalmente contorto, quasi improvvisato. È facile immaginare Roy Brown e i suoi collaboratori che inventano questi scenari stravaganti in viaggio, alimentati dal vino e dal desiderio di superarsi a vicenda con idee sempre più oltraggiose. In quel contesto di giocosa assurdità, i testi senza senso funzionano.
Tuttavia, all’interno di una performance strutturata, Butcher Pete soffre della sua mancanza di direzione, della sua volgarità, della sua ripetitività e della sua pura energia frenetica che rasenta l’incomprensibile.
Eppure, paradossalmente, queste stesse carenze contribuiscono al suo fascino. Il ritmo incalzante e l’energia caotica distraggono dalle carenze liriche. È qui che l’arrangiamento musicale, co-scritto e prodotto da Henry Glover ed eseguito dalla band di Brown, The Mighty Mighty Men, diventa cruciale. Il loro attacco musicale è potente e implacabile come la narrazione che accompagna.
Gave Him Back His Same Old Knife Per gli ascoltatori meno interessati alla profondità lirica e più sintonizzati sull’energia grezza e sul pugno musicale, Butcher Pete probabilmente funziona molto meglio. Mentre una valutazione equilibrata considera sia il testo che la musica, in questo caso, la forza musicale è innegabile, quasi travolgente rispetto al contenuto lirico.
L’energia della canzone emana dalla voce di Brown, ma i musicisti sono tutt’altro che secondari. La batteria fornisce un solido e trainante ritmo di base, mentre i fiati e il pianoforte iniettano frammenti melodici nel caos sonoro.
È durante le pause strumentali che The Mighty Mighty Men brillano davvero. La sezione di fiati – con sassofoni tenore e baritono e tromba – è un punto culminante. Sorprendentemente, i tre fiati non si scontrano; invece, si intrecciano brillantemente, ognuno ritagliandosi il proprio spazio sonoro contribuendo al contempo al ritmo incalzante del brano.
Il sassofonista tenore Johnny Fontenette e il sassofonista baritono Batman Rankins si scambiano ruoli da solista e di supporto, scatenando furiosi assoli che distruggono qualsiasi parvenza di decoro musicale. I loro duelli strumentali diventano i momenti più avvincenti del disco. I fiati trasudano energia esplosiva, minacciando costantemente di detonare, e questa tensione, combinata con la voce maniacale di Brown, quasi, ma non del tutto, compensa le debolezze liriche della canzone.
Don’t Know When To Stop La duratura notorietà di Butcher Pete è innegabile. La sua reputazione scandalosa, unita alla sua energia grezza e sfrenata, lo rende un ascolto accattivante ancora oggi, decenni dopo la sua uscita, quando il suo contenuto lirico è molto meno scioccante per le orecchie moderne.
Tuttavia, la reputazione a volte può superare la realtà. Sebbene l’eccitazione sia palpabile, la ripetizione incessante di Butcher Pete può diventare noiosa. Al di là della mancanza di sviluppo narrativo, profondità dei personaggi o variazione dinamica, la canzone offre poco spazio sonoro per respirare. È l’equivalente musicale di un infarto – intenso, ma alla fine estenuante.
Forse questa intensità implacabile è appropriata. I guardiani contemporanei della moralità probabilmente hanno subito i loro infarti metaforici sentendo Butcher Pete, immaginando il macellaio immaginario che devasta le loro comunità. La loro condanna di tale musica è, in quel contesto, comprensibile.
Il rock ‘n’ roll accumulerebbe molte etichette di avvertimento nel corso degli anni, ma Butcher Pete è stato probabilmente il primo disco che ne meritava davvero una. Pur essendo tutt’altro che un capolavoro di songwriting, la sua pura audacia, sia liricamente che musicalmente, lo eleva al di sopra della mera novità.
Valutare Butcher Pete è soggettivo. Che tu lo consideri brillante o vile, entrambe le prospettive sono difendibili. Nel regno della musica selvaggia e sfrenata, Butcher Pete occupa uno spazio unico e innegabilmente controverso.
VERDETTO DI SPONTANEOUS LUNACY:
(Visita la pagina dell’artista di Roy Brown per l’archivio completo dei suoi dischi recensiti fino ad oggi)